Non è l'inferno

02.03.2012 20:24

“No, questo no, non è l'inferno ma non comprendo com'è possibile pensare che sia più facile morire” è quello che si chiede Emma Marrone, la vincitrice dell’ultima edizione del Festival di Sanremo ed è anche quello che istintivamente mi è venuto da chiedermi quando alcuni giorni fa ho letto la notizia che un imprenditore fiorentino di 64 anni si è impiccato all’interno del capannone della sua azienda. All’origine del gesto ci sarebbero motivi economici e finanziari, stando a quanto scritto in un biglietto trovato vicino al suo corpo.

Dietro a questo dramma ci sarebbero quindi problemi economici. Ma come si arriva ad un gesto così estremo come il suicidio?

Nella persona che compie tale gesto si verifica un restringimento a tunnel del campo della coscienza: non vede strade alternative al suicidarsi perché l’altra soluzione è quella di stare nella sofferenza. La sofferenza di vivere. I sentimenti prevalenti sono quello di impotenza di fronte a quella che sembra una situazione di vita travolgente, di assenza di speranza per il futuro e di profonda solitudine.

Se mi metto nei panni di quell’imprenditore immagino che il fallimento dell’azienda si sia piano piano  trasformato in una crescente sensazione di fallimento della propria vita.

Ma è possibile fare una valutazione del rischio suicidario?

Entro certi limiti il gesto suicidario è imprevedibile. Questo però non vuol dire, e non ci esenta da, non tenere presenti alcuni dati importanti. Ad esempio che statisticamente il rischio di suicidio è maggiore tra le persone sopra i 75 anni di età, tra gli uomini, tra i single o vedovi, e in alcune stagioni dell’anno (nei mesi di Aprile-Maggio e Novembre-Dicembre).

Nel valutare il rischio suicidarlo è importante inoltre considerare 5 aree:

- i tratti di personalità: ci sono alcune caratteristiche di personalità che sono maggiormente associate al rischio suicidarlo. Tra queste: la mancanza di speranza, la tendenza a non chiedere aiuto, bassa autostima, mancanza di fiducia negli altri, impulsività e manifesta aggressività;

- gli eventi psicosociali: lutti, malattie croniche, rottura di relazioni sentimentali, essere detenuti, essere immigrati, vissuti di vergogna, di umiliazione e di caduta dell’immagine sociale sono tutte condizioni associate al rischio suicidario;

- fattori biologici: è stata riscontrata un’associazione tra suicidio e il metabolismo alterato della serotonina;

- fattori familiari: il rischio suicidarlo è maggiore se la persona ha familiari che si sono suicidati o hanno tentato di farlo;

- disturbi psichiatrici: risultano essere maggiormente associati al rischio suicidarlo i disturbi dell’umore, la depressione, l’abuso di alcol e la schizofrenia.

Tornando all’amara cronaca odierna, purtroppo l’estremo gesto dell’imprenditore fiorentino non è un fatto isolato: negli ultimi mesi i Tg nazionali hanno più volte riportato episodi di disperazione di imprenditori o persone che avevano perso il lavoro che si sono tolti la vita.

Come evidenziava già nei primi del ‘900 il sociologo francese Durkheim nei suoi studi su suicidio e anomia, nei periodi di crisi economica il fenomeno dei suicidi è una nefasta costante. Cosa si può fare?

Nel web ho trovato un’interessante iniziativa promossa da un imprenditore di Varese, Massimo Mazzucchelli, che fa parte di un’associazione di “imprese che resistono” e che si chiama   : questo signore avrebbe costituito una rete di psicologi per dare ascolto a piccoli imprenditori e lavoratori in difficoltà.

Lo psicologo infatti in questi casi può offrire le proprie competenze non solo per dare sostegno psicologico alla persona in difficoltà, facendola sentire ascoltata e meno sola, ma anche porsi come promotore di azioni di empowerment. Azioni cioè volte ad attivare risorse e competenze, accrescere nei soggetti individuali e collettivi la capacità di utilizzare le loro qualità positive e quanto il contesto offre a livello materiale e simbolico per agire sulle situazioni e modificarle.

L’obiettivo sarà dunque quello di innescare un percorso che porti dalla learnead helplessness (passività appresa, senso di sfiducia e sconforto nell’affrontare e risolvere i problemi, risultato di ripetute esperienze frustranti) alla learned hopefulness (acquisizione e utilizzo di abilità di problem solving e conseguimento del controllo percepito, fiducia in sé, apprendimento della speranza).

Far in modo quindi che la persona raggiunga una condizione caratterizzata da fiducia in sé stessa, capacità di sperare e maggiore consapevolezza delle proprie capacità, aumentando così la sua sensazione di autoefficacia.

“… mi è venuta tal volta la fantasia di un prigioniero che si trova in una cella sotterranea e che giorno dopo giorno trasmette con piccoli colpi il seguente messaggio in alfabeto Morse: « Qualcuno mi sente? C’è qualcuno? » Finalmente un giorno ode alcuni deboli colpi che dicono: « Si ». Con questa semplice risposta egli è sollevato dalla sua solitudine; è diventato nuovamente un essere umano. Ci sono moltissime persone che oggi vivono in celle private, persone che non lo lasciano trasparire in alcun modo all’esterno, persone che vanno ascoltate con acuta attenzione per udire i messaggi che provengono dalla loro cella.” (C.R. Rogers)

Un saluto caloroso,

Corinna

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